La sfida sociale dell’agroecologia
Intervista esclusiva con Miguel Altieri
di Adriano Del Fabro
La prima edizione di “Agroecologia”, di Miguel Altieri, è datata 1983. Nel 1987 uscì la versione in inglese e, nel 1991, la versione italiana (per Franco Muzzio Editore) che acquistai, lessi con profitto e sottolineai abbondantemente. Un libro importante, poi ristampato, anche per la caratura dell'autore allora professore associato ed entomologo presso la Division of Biological Control dell'Università di Berkeley, in California. E di colui che scrisse la presentazione, il grande e indimenticato entomologo, Giorgio Celli il quale, tra l'altro, annotò: “L'agricoltura sostenibile vuole essere una versione more ecologico dell'agricoltura industriale, una agricoltura dove non si punta più solo alla quantità, ma alla qualità, nell'accezione più ampia possibile, che va dalla qualità del prodotto a quella del territorio, e a quella qualità della vita che è ormai nell'aspirazione di noi tutti”.
A distanza di quarant'anni da quella prima edizione, durante un evento tenutosi a Caltana di Santa Maria di Sala (Venezia), ho incontrato Altieri per una interessante chiacchierata di approfondimento e “aggiornamento”.
Quali sono i cambiamenti agricoli più significativi avvenuti in questi anni?
Penso che il più importante cambiamento non sia legato alle basi scientifiche dell'agroecologia dove, certamente, si sono accumulate più conoscenze, ma nell'adozione significativa dell'agroecologia sotto il suo aspetto sociale, in America Latina e in altre parti del mondo, a esempio, per mezzo della Via Campesina. Il movimento contadino più importante del mondo, si batte per la sovranità alimentare e ha adottato l'agroecologia come base tecnica delle produzioni dei propri associati. Allo stesso tempo, esiste un’appropriazione dei concetti dell'agroecologia da parte di molte istituzioni universitarie e internazionali che si occupano di cibo e agricoltura. Il fatto è, però, che questa appropriazione elimina la dimensione sociale e politica dell'agroecologia, una dimensione molto importante. L'agroecologia, infatti, non è solo una serie di principi e tecniche produttive per un'agricoltura più resiliente, ma contiene anche le idee per cambiare il sistema alimentare dominante. C'è molta confusione sulla questione, oggi, dove molti adottano i principi tecnici dell'agroecologia ma li trasformano e, a esempio, li inseriscono in quella che viene definita l'agricoltura rigenerativa. Un concetto che nasce da un gigante statunitense del sistema alimentare, la General Mills. In questo caso, però, lo scopo finale è quello di catturare una quota maggiore di anidride carbonica per entrare nel mercato dei crediti di carbonio. Diversamente, per me, l'agroecologia è una scienza che contiene una serie di principi per ottimizzare vari sistemi alternativi di agricoltura. L’abbiamo già verificato con l’agricoltura biologica e l’agricoltura “naturale” che segue le linee guida di Masanobu Fukuoka.
Dunque, se tutto è cambiato in questi anni, anche l'agroecologia è cambiata?
In questi quarant’anni c'è stata molta ricerca scientifica che ha dimostrato, con ogni evidenza, come l'agroecologia funziona. Ma questo non è sufficiente. Serve creare un'alleanza con i consumatori: uno spazio ancora poco frequentato e che deve crescere e svilupparsi. I prodotti biologici rappresentano una nicchia di mercato all'interno del sistema capitalista. L'agroecologia, a mio avviso, deve essere un sistema agricolo trasformatore, una proposta di cambiamento per un nuovo modello alimentare. Alcune esperienze in tal senso sono già attive, ma sono ancora troppo poco diffuse. Il rapporto tra produttore e consumatore non può essere solo di tipo economico, ma deve pure rappresentare uno scambio di valori: pace, nonviolenza, biodiversità...
Qual è il rapporto dell'agroecologia con l'evoluzione tecnologica e digitale?
Per me, gli strumenti dell'agricoltura digitale, come i droni, ad esempio, sono utilizzabili se necessario. Il tema, in questo caso, è che se ci si serve dei droni commerciali (con sistemi operativi non open source), le informazioni che vengono raccolte sulle proprietà e sulle coltivazioni, finiscono (gratuitamente) nei database delle aziende che controllano i dati. Bisogna, dunque, democratizzare il sistema per non regalare ad altri, per i loro scopi, le informazioni sul proprio lavoro. Ma queste tecnologie mi paiono ancora lontane dalle esigenze dei contadini dell'America Latina dove si lavora tutt'ora molto con gli indicatori visuali, di più semplice gestione. Servono tecnologie semplici basate sulle richieste di utilizzo degli agricoltori e non viceversa.
Tra le iniziative “green” dell'Ue vi è anche quella di ripristinare una parte delle terre ad aree naturali entro il 2050, provocando la contrarietà di tutte le organizzazioni agricole. Ma la biodiversità non è un valore anche per la produttività agricola?
Non sono perfettamente a conoscenza di come il mondo agricolo europeo affronta queste tematiche e delle varie proteste che ci sono state. Penso, però, che non si dovrebbe dimenticare che gli agricoltori europei ricevono vari sussidi per il loro lavoro e per le regole che devono rispettare, diversamente dai colleghi dell'America Latina che non ricevono nulla. Nel modello dell'economia globale, ai produttori europei fa piacere vendere i propri prodotti all'estero, ma non sono altrettanto felici di importarli e, allora, applicano il protezionismo. Serve un cambio radicale, politico. In America Latina vengono coltivati oltre 50 milioni di ettari per prodotti destinati all'Europa (caffè, banane, agrumi, avocado), il tutto senza sostegni pubblici. Comunque, voglio sottolineare che il beneficio della biodiversità per l'agricoltura, certamente non è immediato, ma nel lungo periodo c'è, a parità di produzione.
Riguardo alla crisi climatica, secondo lei, l'agricoltura è parte del problema o parte della soluzione?
L'agricoltura industriale è parte del problema, visto che produce il 30% dei gas serra. L'agricoltura contadina raffredda il problema. La situazione attuale è figlia della riduzione della biodiversità e della mancata cattura dell'anidride carbonica. Il sistema agroforestale non viene adottato per catturare più anidride carbonica, ma è una conseguenza delle tecniche impiegate. Negli Stati Uniti, gli agricoltori attuano tecniche specifiche per catturare l'anidride carbonica poiché il mercato dei crediti di carbonio è più conveniente della produzione diretta. In questo momento, il nord del mondo è responsabile storico delle emissioni che i Paesi emergenti, finora, hanno subìto e digerito. Cina e India lo sono diventati da una quindicina d'anni. Ma se si guarda alle emissioni pro capite, in Cina sono 7 t; in Honduras sono 0,5 t; mentre, negli Stati Uniti, si sale a 20 t. Per raggiungere i limiti di temperatura globale fissati a livello internazionale bisognerebbe non superare le 12 t pro capite. Dunque, ciò significa che i Paesi del nord del mondo dovrebbero ridurre drasticamente le loro emissioni e, di conseguenza, i loro consumi. Da qui nasce l'imperialismo ecologico del commercio dei crediti di carbonio.
In conclusione, quali sono le azioni più importanti da fare affinché l'agroecologia si consolidi e si affermi?
Serve un movimento sociale organizzato; un rapporto sempre più forte tra contadini e consumatori con il supporto delle Università e della politica agraria. Naturalmente, bisogna fare in modo che un numero sempre maggiore di agricoltori applichino le tecniche realmente agroecologiche, ricche di biodiversità nel paesaggio, nelle coltivazioni e nella genetica; capaci di tutelare la qualità della sostanza organica e la vita biologica dei terreni. Un altro punto importante riguarda l'autosufficienza aziendale per ridurre al minimo l'apporto di sostanze o prodotti provenienti dall'esterno. Bisogna, infine, creare delle aziende modello, didattiche, quelle che io chiamo “faro agroecologico”, aperte alle visite esterne per far conoscere e divulgare le potenzialità dell'agroecologia.