Il termine “El Tamiso” significa “il setaccio”, tradizionale attrezzo di cucina necessario per setacciare le farine, quando ancora la molitura era più rudimentale e normalmente a pietra.
All’epoca della nostra fondazione, nei primi anni ’80 del ‘900, fu scelto questo nome per due buoni motivi: uno, per setacciare idee e progetti (biologico, cooperazione e ridare dignità sociale al lavoro rurale insieme, all’epoca non erano un progetto banale, né lo sono oggi) e due per simboleggiare la relazione tra campo e cucina, quindi campagna e città, con poi un bel nome dialettale veneto.
Una delle prime attività fu la coltivazione biologica di un campo di grano, la raccolta e lo stoccaggio in granaio, coi sacchi “a spalle”. Da li ogni settimana si andava con qualche quintale al mulino Bianchetti, a Giavera del Montello, che, con la sua grande pala ad acqua e le sue antiche macine in pietra naturale, ci restituiva l’equivalente in farina integrale. Farina che poi si portava al panificio Libralon, di Campodarsego, che ci faceva il pane, rigorosamente a lievitazione naturale e cotto in forno a legna. Pane che poi finiva nel nostro primo negozio bio in via Monte Cengio, a Padova, e si chiudeva il cerchio.
Poi le cose crebbero e ci arrivò una notevole domanda di farine da parte di diversi fornai artigianali bio del Veneto e oltre.
Venimmo in contatto con un mulino più attrezzato, pur se sempre artigianale, il Molino Zapparoli a Moglia di Sermide, sul Po', che ci permise di aumentare la produzione di grano ed allargare il lavoro; già alla fine degli anni ’80 arrivammo a produrre e trasformare oltre 5.000 ql di grano tenero bio locale, quantità importante per l’epoca.
Sui prezzi del grano e sui vari costi della “filiera” per arrivare al prezzo del pane al consumatore finale, fino ad allora non ci furono problemi: ognuno riteneva di essere soddisfatto a sufficienza.
Tutto questo attirò però l’attenzione di qualche grosso molino industriale, che riuscì facilmente a ridurre i costi della molitura bio (anche “giocando” in termini di costi fissi con la contemporanea produzione convenzionale e coi moderni mulini/laminatoi), e a proporsi sul nostro mercato a condizioni imbattibili.
Lo stesso artigiano bio, col crescere della concorrenza, deve poter vendere a meno il pane al distributore o alla catena di negozi organizzata, perciò compra sempre meno al Tamiso, o a soggetti simili specializzati nel bio locale, ma da qualche grossista convenzionale misto biologico, che propone una gamma di farine, sempre più con grani non italiani, insieme a tanti altri ingredienti bio per panetterie e pasticcerie, quali i vari oli e grassi vegetali, il burro, l’olio, il sesamo, perfino il rosmarino, che arrivano da fuori Europa!
Tutto certamente rispondente ai criteri previsti dalle norme vigenti nel biologico Europeo, ma sempre più lontano dall’idea di economia “circolare” degli esordi della nostra esperienza biologica, dove erano, e sono, fondamentali relazioni eque di filiera e la garanzia di provenienza locale, che oggi il consumatore cerca sempre di più.
Una decina di anni fa ci si illuse di poter superare il problema abbandonando il mercato delle farine a prezzo “basso”, ed imboccando la meravigliosa strada del recupero e della rivalutazione dei cereali “antichi”, siano essi grani teneri o duri, il farro spelta ed il farro monococco, la segale, il mais Maranello, il miglio.
Cereali che sono certamente in grado di dare adeguate risposte ai grandi temi delle intolleranze alimentari e di una alimentazione equilibrata e naturale. Dal punto di vista agricolo questo ha comportato
anni di investimenti in attrezzature, selezione e sperimentazione. A ciò si aggiunga che generalmente questi cereali producono molto meno delle moderne varietà, o che sono più “sensibili in rapporto ai cambiamenti climatici.
Insomma anche qui occorre una
filiera di relazioni, fino all’utente finale, in grado di riconoscere al produttore agricolo il valore del suo investimento, cosa che succede se vi è adeguata condivisione delle informazioni e rapporti di fiducia tra le varie “parti”.
L’illusione è finita in molti casi proprio davanti al prezzo/costo delle farine, troppo elevato in rapporto a “cereali antichi” bio che arrivano da Paesi extra Europei con costi del lavoro e di produzione molto più bassi, e che la solita filiera de-specializzata intermediaria propone.
Tutto questo per arrivare a concludere che l’unica strada percorribile
per non smettere del tutto la produzione, già ridotta nel tempo, è arrivare direttamente, o quasi, al consumatore finale, col prodotto trasformato.
In questa fase abbiamo scelto i
crakers artigianali, trasformati da “El Forno a legna”, tutti con le nostre farine e con materie prime biologiche italiane e i
biscotti, trasformati da BioGovinda, vegani, in cui tutte le farine sono di nostra produzione.
Nel confronto con un omologo prodotto che si può trovare in qualsiasi negozio bio, ciò che ci ha impressionato è il confronto tra il valore delle nostre materie prime e quelle in uso ordinario.
Per questo i nostri trasformati hanno certo un prezzo medio/alto.
Ma se la prospettiva è sempre e solo il ribasso dei prezzi, è bene sapere che non c’è spazio per produzioni locali biologiche, frutto di un’agricoltura attenta davvero alla fertilità, alla biodiversità, alla qualità ed alla responsabilità sociale.